Si è riunita la confraternita del tortello

Nei giorni scorsi l’agriturismo Cascina Loghetto ha ospitato la prima conviviale ufficiale del tortello cremasco organizzata dall’omonima confraternita. Il gran consiglio è formato dal presidente Roberta Schira e da Gianni Bolzoni, Franco Bozzi e Marta Guerini Rocco. I soci sono Diego Aiolfi, Carlo Barbaglio, Fiorenza Campari, Alessandro Patrini, Francesco Cremonesi, Flaminia Rossi, Franco Dedè, Pia Gobbato, Anna Maria Mariani e O t t a- via Volpi, quelli onorari Franca Aiolfi, Ines Stabilini, Amilcare Cazzamalli, Franco Bozzi e Antonio Bozzo.

Il tocco napoletano di Lillo Frigoli all’Arengario. la mia recensione sul corriere

A Tavola

A chi gli chiedeva il segreto per un locale di successo, il potente imprenditore e barone Harold Samuel rispondeva: «location, location, location». È il caso dell’Arengario in piazza Duomo (tel. 02.72.09.38.14) di Giacomo Bulleri. Le guglie a portata di tavolo facevan passare la cucina in secondo piano, tranne la pasticceria, fregio di famiglia. Poi arriva il cuoco Pasquale «Lillo» Frigoli (ex Mudec), napoletano di 28 anni, e da sei mesi anche il bravo direttore Luca Pedinotti, che in sala dà il giusto ritmo. Le linguine mantecate, i ravioli di scarola e gli scialatielli fanno ben sperare. Prezzi a partire da 70 euro.

Cous cous, sambusa e zighinì in via Canonica. La mia recensione sul corriere

A Tavola

Gli etnici hanno sempre quell’aria un po’ artefatta, come i fiori finti. Savana (via Canonica 45, tel. 366.40.73.136), il nuovo eritreo ai bordi di Chinatown, no. Non per l’arredo o la nazionalità del cuoco africano, ma per una questione di sapori. Pochi piatti e corretti. Il sambusa, fagottino ripieno di carne o verdura, è croccante e profumato di spezie. Lo zighini è un succulento piatto unico a base di carne di manzo, erbette, patate, cous cous, lenticchie rosse, uova sode. Si mangia con le mani aiutandosi con ingera, il pane sottile e morbido preparato ogni giorno. Si termina con tè alla cannella. 25 euro in media.

Com’è dolce Milano

Dal tiramisù affumicato alle torte cioccolato e gorgonzola.

Mentre una parte del mondo demonizza carne e zucchero bianco, forse con troppa fretta considerati veleni, l’altra continua a consumare costolette e bignè. E Milano incarna bene le due facce. Verso le feste impazza il sapore dolce, si preparano nuove aperture. A chi non piacerebbe gustarsi, con forchette e coltello, un menu a base di dessert anziché consumare mezza fetta di Saint Honoré al bancone? Si potrà fare dalla settimana prossima a Brera. Al Tiramisù Delishoes, primo «Fashion Dessert Restaurant» d’Italia. Ci si tirerà su di morale con una pralina o vendendoci un paio di scarpe o accessori di moda. La novità, ideata da Antonio Carstulovich, si ispira a Espai Sucre di Barcellona, celebre «spazio zucchero» degli chef pasticceri Jordi Butròn e Xano Saguer, primo ristorante al mondo dedicato al più amato dei cinque sapori. Da gustare al piatto: panna cotta speziata al limone con rucola e yogurt, plumcake di carota con mousse di cocco e sorbetto all’arancia. Il bello sarà verificare come se la caveranno con i fondamentali della cucina italiana virati in dolce; mostri sacri come la cotoletta, il vitello tonnato, lo spaghetto al pomodoro, accompagnati da un crumble speziato, un gelato alla cipolla, un chutney di pomodoro e pesto. Un luogo per chi ama sperimentare. Ernst Knam, il più milanese dei pasticceri tedeschi, è anche cuoco, cioccolatiere e volto Sky. Ha appena rinnovato la sua famosa pasticceria in via Anfossi e lanciato la nuova linea di torte Extreme. La parte design è dell’architetto Lorenzo Palmieri, che ha giocato con legno di noce e suggestioni di viaggio, pittoriche e teatrali. Niente barocchismi. Le torte di Knam sono pulite, essenziali, pura geometricità in un continuo rimbalzare tra forma e contenuto. Estrema e lunghissima sul palato e nel cuore l’emozione che provocano. Il consiglio è lasciarsi condurre dal colore. Verde? Cioccolato Uganda, gorgonzola, assenzio. Rosa? Cioccolato, pompelmo rosa e pepe nepalese di timut. Viola? Cioccolato bianco, mirtilli selvatici e limoni neri dell’Oman. «Assaggiare è viaggiare senza muoversi. Assaporare ingredienti e prodotti, porta all’altro capo del mondo. Questo offro nella mia pasticceria». C’è chi, invece di ampliarsi, raddoppia. Non c’è milanese goloso che non conosca la storica pasticceria Martesana di Vincenzo Santoro, nata nel 1966. «Volevamo una vera boutique: grandi vetrine a pianterreno, sala da tè e spazio per eventi. Dal 29 novembre sarò io ad accogliervi nella Martesana Boutique, in via Paolo Sarpi», dice la figlia di Santoro, Manuela. Alla regia, Davide Comaschi, campione mondiale di cioccolateria nel 2013 con il Galaxy, spettacolare pralina triangolare che proporrà farcita in varianti infinite. Non si dorme la notte in laboratorio per la nuova apertura, più della prima Martesana (che resta) dedicata al cioccolato. E Comaschi non dorme neppure per l’altra sfida: la preparazione del prestigioso Salon du Chocolat che si terrà in febbraio per la prima volta a Milano. Città che si conferma sempre più dolce.

Le ricette di La Mantia per i bambini del Nepal

Filippo La Mantia, tra i protagonisti più corteggiati della scena gastronomica milanese, è anche paladino delle cene di beneficenza (che Milano, città anglofila, chiama charity dinner). Da un anno scarso, lo chef palermitano che ha il vezzo di definirsi «oste e cuoco» ha preso in mano le redini dell’ex Gold di Dolce e Gabbana, in piazza Risorgimento, diventato grazie a lui uno dei ristoranti di maggior successo della città. È La Mantia che imbandisce la cena benefica di domani sera allo StarHotels Rosa Grand di piazza Fontana, organizzata da Food&Life per Weworld Onlus, in favore dei bambini terremotati del Nepal e per una scuola materna in uno dei quartieri più disagiati di Palermo. Alla serata, asta e lotteria benefiche condotte dalla giornalista e volto noto della tv Francesca Senette, da dieci anni ambasciatrice di Weworld. Che cosa arriverà in tavola? Piatti siciliani (senza aglio e cipolla) di cui La Mantia è ambasciatore in Italia e nel mondo. Ai tavoli, regine delle food blogger come Chiara Maci e Csaba Dalla Zorza (ore 20.30, e 90, tel. 02.76.31.7984).

Classici milanesi e bollito misto all’Osteria Conchetta. La mia recensione sul corriere

A Tavola

L’Osteria della Conchetta (via Conchetta 8, tel. 02.8372917) non è certo una novità, ma a volte urge monitorare le vecchie insegne, specie se cambiano gestione. In cucina, accanto ai piatti milanesi qualche volo pindarico, ma noi consigliamo il mangiare meneghino: brasato, cassoeula, nervetti e ossobuco, risotto al barolo e riso al salto. Su tutto, la costoletta, che pur essendo «a orecchia d’elefante» conserva morbidezza e l’osso. Di giorno il locale è caoticamente affollato per pranzi di lavoro, la sera acquista un’aura più romantica. Il mercoledì: bollito misto al carrello. Trenta euro circa.

Com’è deliziosa Venezia

L’arte, l’acqua, la storia, i ponti, i palazzi, i vaporetti, i tetti, le terrazze. Se la Serenissima sa ben corteggiare gli occhi, non dimentica certo di conquistare il palato. L’importante è non cedere al banale e ricercare l’eccezionale.

 

Non esiste un reale motivo per tornare a Venezia. Perché i motivi sono tanti e perché non si finisce mai di scoprirla, di sondarla e di lasciarsi ammaliare dalle acque scure e trafficate che tanto hanno da raccontare. La sua capacità di stregarci all’infinito – e in autunno ci riesce meglio che in altre stagioni – è inversamente proporzionale alla sua capacità di nutrire il turista distratto dalla sua bellezza. Ma se uno si vuole proprio concentrare sull’offerta food veneziana non può che ammettere il suo essere deludente, cara e poco trasparente. Accade quello che avviene in tutte le città turistiche, il conto varia, a seconda che a chiederlo sia il turista giapponese o un nativo della Laguna. Esauriti i buoni (e scarsi) indirizzi degli amici gourmet come il ristorante Al Covo, il Vecio Fritolin a Rialto e qualche trattoria in terraferma, conviene concedersi il piccolo lusso (non così distante da alcuni salassi ingiustificati) di un piatto d’autore. Per esempio, un breakfast al Danieli, forte di una nuova squadra e di una visuale unica che fece innamorare la Callas a vita, oppure un tè, accolti dalle braccia accoglienti di un cinque stelle extra lusso. L’ultima scoperta è Massimo Livan, executive chef dell’Antinoo’s Lounge & Restaurant, all’interno del Centurion Palace, nella zona Dorsoduro, tra Punta della Dogana e la Collezione Peggy Guggenheim. Un antico edificio conosciuto come Palazzo Genovese è stato trasformato in un gioiello della catena Sina Fine Italian Hotels. Visto da Canal Grande offre una facciata gotica, ma gli interni e le suite sono modernissimi, frutto della bravura dell’architetto fiorentino Guido Ciompi. Lo stesso duplice volto si può dire dello stile di Livan. Lo chef, nato nel sestiere Castello, ha sposato la tradizione veneziana rendendola contemporanea e più salutare grazie alla presenza di erbe, fiori e frutta. Un gioco di ingredienti che si intrecciano per ricongiungersi in un’armonia finale nel nome dell’italianità e dell’eleganza. Perché il suo credo in cucina è quello di “raggiungere l’equilibrio a tutti i costi”. Così, accanto al rombo in crosta di caffè con caprino e wasabi e alle pietanze più estrose convivono lo spaghetto alle vongole, le seppie al nero e gli scampi al saor, uno dei signature dish dello chef. “Un mix di piatti molto gradito dai nostri ospiti stranieri”, conferma il general manager Paolo Morra, “che speriamo possa attirare anche i veneziani più esigenti e affezionati alla tradizione”.

Ristorazione in Galleria. Non bastano le stelle

Proprio perché la Galleria, come ha scritto Roberta Schira sul Corriere, «resta ambita dai brand internazionali», e per la natura stessa del luogo (con i rinnovi delle concessioni), occorrerebbe tenere in considerazione tutti gli aspetti in una valutazione sul livello della cucina nei locali. In Galleria ci sono professionalità cresciute con l’esperienza di anni, aziende che garantiscono un servizio efficiente. Non penso che la Galleria debba essere solo una vetrina di lusso e stelle. La sua varietà, compresa la ristorazione di qualità fatta da aziende familiari, va preservata.

Atmosfere rètro tra arrosti e polenta nel Parco del Ticino. La mia recensione sul corriere

A Tavola

Nel cuore del Parco del Ticino, a due passi dal Naviglio Grande, da Lucrezia (via De Barzi, 11 Robecco sul Naviglio info al telefono 02 9470784) tutto sembra rimasto fermo a 50 anni fa. Un locale per cerimonie e banchetti fa storcere il naso ai gourmet, ma quanto è rassicurante. Una sfilza di antipasti, tortelloni, piatti di pesce e arrosti di carne. L’autunno regala i risotti, la polenta con porcini trifolati e, nascosta tra (tanti,troppi) piatti in carta, una commovente insalata russa di cui si è smarrita la memoria in qualche pranzo domenicale di famiglia. Con 25 euro si fa la classica «pacciada» veronelliana.

Là dove profumano i tartufi. Ristoranti, ma anche botteghe specializzate. E attenzione a quelli che arrivano dall’Est

«No, non glielo dico il mio cognome, mi conoscono come Rino il trifolaro di Lombardia. E basta così. Lo so che il tartufo d’Alba è il più conosciuto, ma le assicuro che ci sono terre con tartufi bianchi così profumati che deve girare la testa dall’altra parte». Vive a Tortona con due lagotti romagnoli dal pelo ispido e riccio, ma in autunno si sposta tra Lomellina, Oltrepò e Gavi. Ogni anno, consultando il suo quadernino segreto, va a caccia del dono della terra più prezioso al mondo. «I migliori crescono sotto i noccioli, per questo nelle Langhe ce ne sono tanti. Ma è buono anche il tartufo sotto la quercia ed è molto pregiato quello che nasce sotto i tigli, macchiato di rosso. Questo bitorzoluto? Viene da un terreno calcareo, il rotondetto da un terreno sabbioso, questo, ci scommetto una buona cena, tutti lo scambiano per un tartufo bianco d’Alba, invece viene da Savigno, sui colli bolognesi, dove è in corso la festa del tartufo: ci vada e si renderà conto». A saziare la voglia di tartufo dei milanesi concorrono tante regioni, oltre al Piemonte: Lombardia, Emilia, Toscana, Marche e (ma senza dirlo) Paesi dell’est. Chi si vuole togliere la voglia di tartufo, ha più scelte. Sedersi nel ristorante preferito e ordinare un piatto che ne preveda una grattatina, eseguita al tavolo. Comprarlo da Tartufi Urbani (via Anfossi 13) o nei ristoranti-botteghe nati negli ultimi due anni proprio per celebrarlo. Il più noto, con quattro vetrine in corso Venezia 18, è Tartufi&Friends di Alberto Sermoneta. Assoluta novità è Procacci, nome che i fiorentini conoscono bene: da poco apre in corso Garibaldi 79 con i profumatissimi paninetti farciti di crema tartufata. Lo storico brand è della blasonata famiglia dei vini, Antinori. Oltre ai panini, piatti con tartufo, dai tagliolini alle carni. Il terzo paradiso esclusivamente impostato sul fungo ipogeo è Tartufotto (via Cusani 8), della famiglia toscana Savini: più che per la cucina, corretta, funziona per creme e preparati al tartufo. Un trucco per riconoscere il tartufo di qualità? Se in un ristorante arriva un piatto con tartufo al tavolo vicino e tu non senti il profumo (che è tutto), sappi che ti daranno una fregatura.